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Cucina tipica salentina, 10 piatti della tradizione del salento.

La cucina tipica salentina è sostanzialmente povera, ma al contempo gustosa : pasta, grano, verdure, ortaggi, pesce di piccolo taglio e porzioni di carni non pregiate erano le protagoniste delle mense di contadini, pastori e pescatori.

La pasta ed il pane erano costituite da cereali poveri: orzo, farro, segale coi quali venivano impastati pane e pasta.

Le verdure e gli ortaggi erano preponderanti, così come i legumi e l’olio extravergine di oliva. Annate di scarso raccolto, o di penuria dei medesimi hanno portato i salentini a conoscere ed a stimare le cosiddette “verdure selvatiche“, che in mancanza d’altro hanno costituito in molti casi un pasto alternativo o di sussistenza vera e propria.

Il pesce e le carni, specie quelle pregiate, erano per le mense dei signori, così come pure il latte ed i formaggi.

La prevalenza di piatti tipici della dieta mediterranea qui in Salento non deve però lasciarci pensare che manchino le specialità di mare o quelle con la carne: anche se costituite da parti, pezzi o specie che non venivano consumati sulle mense più altolocate spesso e volentieri hanno costituito – quando ve ne era possibilità – una preziosa integrazione calorica per le nostre genti, abituate da sempre ai lavori in campagna, con gli animali o nei due mari che contornano la Penisola Salentina.

Il Salento, la Provincia di Lecce sono terre da gustare che dal nulla hanno fatto scaturire piatti oggi succulenti…e che ogni salentino doc è in grado di raccontarvi, cucinarvi e servirvi…sia nelle assolate serate d’estate con una splendida “vista mare” o seduti in una “corte” di un antico palazzo, che con un calice di Primitivo o Negramaro accanto al fuoco, in una sera d’inverno.

Potete anche dare un occhiata alla cucina tipica pugliese, recensita tempo fa.

Lasciatevi trasportare da odori, sapori…e che l’esperienza abbia inizio.

Puccia salentina, l’ambasciatore della cucina tipica salentina

I legionari romani, durante le loro estenuanti marce in difesa dei confini dell’Impero, portavano su di essi un carico tra armi, armatura e vettovagliamento non inferiore ai 30 chili.

Le soste, prima di arrivare al castrum, cioè all’accampamento militare fortificato, erano brevi e bisognava mangiare qualcosa di rapido e veloce…quello che noi oggi chiameremmo “spuntino”.

Il buccellum era proprio questo: una pagnotta ovale non eccessivamente grande, a volte mista ad olive o verdure essiccate e qualche volta condita col garum, una salsa fatta d’interiora di pesci della quale i Romani erano particolarmente golosi.

Il contadino salentino ha mutuato dai legionari di Roma tale companatico, trasformandolo in pane condito nell’impasto da olive della varietà “Cellina”.

É costume ancora oggi in Salento e della cucina tipica salentina, che esso venga principalmente consumato come merenda farcita con tonno, capperi, pomodori secchi o verdure (sottolio tipici pugliesi), come aperitivo e, soprattutto, durante il digiuno della vigilia e della Festa stessa dell’Immacolata, che si festeggia l’otto di dicembre di ogni anno.

Quataru, la zuppa di pesce

Anche il mondo marinaro salentino ci ha lasciato una forte tradizione culinaria nella cucina tipica salentina: essa è costituita principalmente dal “quataru“, una zuppa di pesce, mitili, crostacei e verdure.

Probabilmente “inventato” dai pescatori ionici di Gallipoli o Porto Cesareo, esso era costituito da pesce “pizzicato”, cioè quel pesce morso da altre specie ittiche e quindi non vendibile sul mercato, granchi, cozze, cipollotti e pomodoro…e mille altre verdure commestibili o che si trovavano a bordo del peschereccio.

Solitamente, questo era l’unico pasto del pescatore durante le sue battute, cotto e mangiato sull’imbarcazione, oppure sulle lande sabbiose del mare salentino, durante uno dei rari momenti di sosta ed attracco.

Prende il suo nome dalla “quatara”, cioè il grosso pentolone in rame dalla forma abbastanza voluminosa, nella quale si metteva a cuocere questa gustosa mescolanza di pesce che altrimenti non si sarebbe appunto venduto.

Di recente, il Quataru di Porto Cesareo ha ottenuto dal Ministero delle Politiche Agricole il prestigioso riconoscimento di Prodotto Agroalimentare Tradizionale.

La Scurdijata, piatto del contadino e povero

Nel Capo di Leuca ed in generale in tutto il Salento era costume dei contadini, che nei campi lavoravano “te sule an sule” – cioè dall’alba sino al tramonto – consumare una colazione veloce, ma al tempo stesso gustosa e nutriente…era la scurdijata (in altri comuni chiamata “gialleddhra”, “marenna”, “scarfatu”…): piatto a base di legumi – fave o fagioli – verdure selvatiche, oppure cicorie o rape e del pane del o dei giorni prima, opportunamente bruscato o fritto.

Il contadino poteva metterla nella sua bisaccia, e consumarla strada facendo mentre andava nei campi – spesso a piedi, di rado o per i più fortunati in bicicletta – o a casa stessa, prima di incamminarsi al lavoro.

Non conosciamo in maniera specifica delle fonti storiche che ci riportino all’origine di questo piatto: molto probabilmente, deriva direttamente dal mondo contadino messapico, consumatore privilegiato di legumi, ed ancestralmente ancorato negli usi delle famiglie povere di braccianti o mezzadri, che facevano della cultura del riuso e del non spreco di cibo una costante di vita.

Tria, la pasta!

“Il libro di Ruggiero”, una raccolta di carte geografiche del geografo arabo Idrisi, afferma che nel 1154, nella località di Trabia (presso Palermo), si produceva un particolare cibo fatto con la farina, di forma allungata, chiamato con il termine arabo Itriyah (pasta secca o pasta fritta);

se ne sviluppò presto un intenso commercio, diffondendosi inizialmente in tutta la Sicilia, salendo poi verso Napoli, e ancora su lungo tutta la costa tirrenica, con spedizioni in tutto il Mediterraneo, sia cristiano che musulmano.

Inoltre, sembra anche che i Romani d’Oriente, meglio conosciuti come “Bizantini”, chiamassero “Tria” (che in greco moderno significa “tre”) un piatto a base di pasta sottile, legumi o verdure ed impasti di farine fritti.

A tal proposito, occorre dire che la Tria è composta essenzialmente da pasta – molto simile alle moderne tagliatellelegumiceci, in particolare – e “friuzzuli”, cioè della pasta fritta posta essa stessa sopra la pietanza.

Spesso e volentieri al posto dei legumi si utlilizzano i “mugnuli“, caratteristico cavolo salentino, coltivato principalmente nel Leccese, dal colore verdone.

E’ costume, in molti paesi del Salento mangiare a tavola tutti insieme questa gustosa pietanza in momenti di festa, in particolare durante la Festa di San Giuseppe lavoratore, che cade il 19 marzo di ogni anno.

Maritati leccesi, con ricotta forte salentina

I “maritati leccesi” (o ricchie e minchiareddhri) sono il piatto base della tradizione culinaria salentina.

Essenzialmente fatti con farine povere (orzo, oppure segale), o con grano della famosa varietà “Senatore Cappelli”, sono costituti dalle “ricchie” – le orecchiette – ed i “minchiareddhri” – pasta dalla forma affusolata, con foro centrale –

Conditi con sugo di pomodoro fresco e ricotta forte salentina (chiamata in dialetto ricotta ” ‘scante o scanta“, ossia bruciante), una particolare ricotta spalmabile dal sapore intenso, piccante e fermentato, perfetta per condire la pasta al sugo o da spalmare sul pane bruscato…

Sino agli anni Sessanta del Novecento, essi erano la pietanza servita essenzialmente durante i matrimoni: difatti simboleggiano, per tutti i salentini, l’unione amorosa tra i due elementi, il maschile, simboleggiato dal “minchiareddhru“, ed il femminile, rappresentato dalla “ricchia“…a guardar bene, infatti, entrambi questi due tipi di pasta, rappresentano gli organi della sessualità dell’uomo e della donna: il prepararli, il cucinarli ed il servirli durante un pranzo nuziale assumeva, quindi, significato apotropaico e di fertilità per la coppia di sposi.

Sagne ‘ncannulate: lasagne arrotolate

Sono il classico “piatto della domenica” e, insieme alle “ricchie e minchiareddhri” (ossia, i “maritati“), il formato di pasta più famoso del Salento.

Si racconta che le “sagne ‘ncannulate” (lasagne arrotolate) siano nate per rendere omaggio a San Giuseppe, come suggerisce la forma che ricorda i trucioli di legno delle botteghe dei falegnami.

Esse possono essere condite con semplice sugo di pomodoro e basilico oppure, nella variante tipica della citttà di Lecce con ricotta “forte” piccante (cioè la ricotta “scante”), con aggiunta di polpettine di carne.

In alcuni territori salentini, sono anche ribattezzate “sagne torte”.

Durante il Primo ed il Secondo Dopoguerra, o comunque nei tempi storici passati, esse erano costituite essenzialmente da farine povere, tipo l’orzo, e quindi assumevano colorazione scura.

Eccezionalmente, o comunque sulle mense dei ricchi questo cibo tipico salentino, esse erano fatte con impasto della famosa farina di grano “Senatore Cappelli”.

Mbrotu te gnommareddhri te castratu

Questo è un piatto tipico della tradizione agro-silvo-pastorale del Salento, ed ha origini piuttosto antiche.

La pastorizia e l’allevamento, difatti, dal periodo arcaico (VI-V secolo a.C.) sino ai primordi del Cinquecento erano voci importanti dell’economia salentina.

Non solo: la transumanza – oggi riconosciuta patrimonio immateriale dell’umanità dall’UNESCO che partiva dagli Abruzzi e dal Gargano si concludeva con lo svernamento delle greggi di pecore e capre proprio qui, in particolare nel Basso Salento (fenomeno, questo, che si è avuto almeno sino al 1960).

E proprio durante una delle tante soste, da parte dei pastori, nelle masserie di Ugento che venne “inventato” questo piatto: si tratta di viscere e frattaglie dell’agnello, avvolte in una ” ‘nzeppa” di budello di bovino, e cotte in una minestra di carote, sponzali, cipolle, sedano e successivamente anche di patate.

Dell’animale, non si buttava via nulla: tant’è che spesso e volentieri veniva servita in questa zuppa anche la lingua dello stesso.

Polpo alla pignata, cucinato in pentola di terracotta

Il polpo alla pignata è un’antica ricetta salentina il cui nome deriva dalla tipica pentola in terracotta in cui veniva cucinato, la pignata appunto.

Nel polpo alla pignata il polpo cuoce con la sua stessa acqua, ed è questa la principale regola da seguire per una cottura perfetta.

Il polpo di cui il mar Mediterraneo è ricco, si riconosce dalla doppia fila di ventose presenti sugli otto tentacoli, ed è particolarmente adatto per questo tipo di cotture lunghe.

La sua carne è piuttosto dura e quindi appena pescato viene di solito sbattuto con forza sullo scoglio per renderlo tenero.

La prelibatezza viene così definita perchè il polpo è cotto, insieme alle patate, nella “pignata”, il caratteristico recipiente di terracotta, accostata e non sovrapposta alla fiamma del focolare.

Qualcuno pensa che questa sia una ricetta dei Messapi, popolo autoctono che ha abitato il Salento nelle epoche arcaiche ed ellenistiche, con l’aggiunta delle patate quando le stesse vennero introdotte nella dieta mediterranea dopo la scoperta dell’America.

Paparina o fritta, pianta del papavero prima che fiorisca

L’antica origine e la tradizionalità de la Paparina, si evince dalla sua grande diffusione in tutta la provincia di Lecce ove da paese a paese si rilevano sovente alcune piccole varianti.

In alcuni paesi ad esempio, si ritiene indispensabile cuocere le piante di rosolaccio insieme a quelle dell’acetosa in gergo “lapazzu”, come ricordato da un antico detto: ” paparina, paparina, senza lapazzu cc’ì nnè fazzu”, oppure aromatizzare la preparazione con delle aromatiche scorzette d’arancia.

Nel Capo di Leuca questo piatto della cucina tipica salentina prende il nome di “fritta” , e un tempo costituiva anche una sorta di pasto rituale consumato intorno a strepitanti falò in delle sorta di bucoliche celebrazioni legate in qualche modo al periodo Quaresimale.

E’ comunque la pianta del papavero, prima che fiorisca, ed è servita anche “a minescia”, con aggiunta di cipolla ed olive nere.

La Scapece, conservazione sotto aceto di pesce

E’ un procedimento antico di conservazione di alimenti sotto aceto, noto in tutta Italia: dalla Liguria a Napoli, col nome corretto di “escabeche“, cui seguono le varianti dialettali tipiche di ogni regione d’Italia.

Tuttavia, in Salento esso riguarda principalmente la conservazione di pesci di piccole o medie dimensioni, principalmente “pupiddhri” (zerri, in italiano), con oltre all’aceto l’aggiunta di diverse altre componenti stratificate e conservate in timballi di legno: pane grattugiato in maniera più spessa, zafferano (da qui la colorazione gialla del pesce e del pane), menta, alloro tritato e, in alcuni casi, pepe in grani.

Maestri nella preparazione della scapece in Salento sono i pescatori gallipolini: infatti, la “scapece gallipolina” è un piatto della cucina tipica salentina di Gallipoli ed è così preparato: il pesce viene fritto con olio per friggere e dopo fatto marinare a strati alterni con mollica di pane imbevuta con aceto e zafferano in appositi mastelli in legno.

La scapece viene venduta in occasione delle festività patronali e fiere, e costituiva una provvista sicura nei mesi invernali per gli abitanti dei borghi marinari salentini.

One comment

  1. Joseph Seder

    Complimenti bravo continua cosi!!ottimo lavoro Grazie!!

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